Luigi Bello

Pittore e scultore

Nasce a Legnano il 19 Agosto del 1928. Fin da piccolo e durante tutta la giovinezza lavora assieme al padre, eccellente pittore e decoratore. Purtroppo, la Guerra impedisce al promettente Luigi di prepararsi per l’esame di ammissione all’Accademia di Belle Arti ma, al termine del conflitto, con l’appassionata motivazione che sempre lo ha sostenuto, frequenta i corsi serali della Scuola d’Arte del Castello Sforzesco.  

Entra quindi in contatto con il fermento artistico e culturale della Milano degli anni Cinquanta e Sessanta, seguendo i crescenti dibattiti sull’arte contemporanea e frequentando i numerosi professionisti che orbitavano attorno alle gallerie della città, tanto che decide di aprire un proprio atelier in Via Solferino. Tuttavia, dopo alcuni anni la crescente insofferenza nei confronti delle manifestazioni culturali e del clima borghese della grande città lo porta ad una svolta radicale: decide infatti di trasferirsi definitivamente con la famiglia a Cadegliano-Viconago, tranquillo paesino vicino al confine elvetico a lungo frequentato durante periodi di villeggiatura; a partire dagli anni Ottanta, si dedica esclusivamente alla pittura trovando la propria ispirazione nelle letture, nel silenzio, nella vegetazione e nell’aria di questa amena località. Collabora inoltre con la Compagnia del Teatro Blu, a cui lo legano anni di reciproca stima e amicizia, oltre al comune intento di diffondere bellezza e autenticità tramite la propria Arte. 

“Lo sguardo alle opere di Luigi Bello si ferma, sorpreso, sulla vivacità e ricchezza dei temi e delle forme espressive. Allegria e una giovane curiosità colpiscono inizialmente, ma sono la profondità e il bisogno di assoluto dell’adulto a restare impressi nella memoria. L’artista sembra captare da vero cittadino del mondo, il vento culturale attuale e trarne nutrimento spirituale: i riferimenti all’estetica del vuoto e alla riduzione all’essenza ne palesano l’attenzione alle nuove forme di pensiero e di interpretazione della vita. Luigi Bello è un’artista che sa trasformare se stesso e la materia esprimendo il proprio mondo a piene mani, ma che anche chiede al mondo di osservare i suoi lavori con una attenta tensione verso la comprensione.”

Chiara Salandin
Psicologa Arteterapeuta

Alcune esposizioni

  • 1950 Espone per la sua prima volta a Legnano un dipinto “La medium”
  • 1967 Galleria Lux a Milano, la sua prima mostra personale
  • 1968 Galleria Internazionale di Legnano (MI)
  • 1971 Castello Visconteo di Pavia
  • 1972 Sala d’Arte Guglielmi. S. Benedetto del Tronto (AP)
  • 1972 Galleria d’Arte Matuzia San Remo (IM)
  • 1976 Galleria D’Arte Augusto di Milano e nell’occasione presenta il ritratto di Giorgio Strehler che donerà al Piccolo Teatro di Milano
  • 1977 Galleria d’Arte Ars Italica di Milano
  • 1981 Galleria Tre di Varese
  • 1981 Galleria Bolzani di Milano
  • 1988 Galleria Studio S. Michele a Lugano Cassarate (CH)
  • 2002 Chiesetta S. Antonio Abate del XI secolo a Viconago (VA)
  • 2009 Sala Comunale di Cadegliano (VA)
  • 2009 Villa Borromeo di Viggiù (VA)
  • 2012 Mostra alla Villa Recalcati di Varese
  • 2014 Spazio Lavit di Varese
  • 2014 Areacreativa42 a Villasanta (MB)
  • 2016 Mostra antologica al Castello Visconteo di Legnano (MI)
  • 2017 Mostra personale alla galleria Cascina dell’Arte di Busto Arsizio (VA)
  • 2018 Un segno nella storia: Trittico di mostre in occasione del 90° compleanno presso Spazio Lavit a Varese, Spazio A.R.T. a Lavena-Ponte Tresa (VA) e Alter Ego a Ponte Tresa (CH)
  • 2022 Biblioteca Civica di Cadegliano Viconago (VA)
  • 2023 Oasi San Gerardo di Monza (MB)
  • 2023 Mostra Il segno e la materia a Palazzo Verbania di Luino (VA)

Presentazione e testo critico di Alberto Moioli per la mostra “Un segno nella storia”, Settembre 2018

“Ho sempre desiderato di essere nient’altro che un pittore”.

L’intensità delle emozioni che si possono provare al cospetto di un’opera d’arte dipende senza alcun dubbio nella capacità che si hanno nel porsi davanti ad essa. L’incontro con Luigi Bello appartiene ad una delle esperienze più forti e piacevoli che si possano fare nell’affascinante e controverso mondo dell’arte. Sono stato accolto nella sua attuale dimora, lontano dalla mondanità, immerso in un paesaggio dove le lancette dell’orologio sembrano ferme da molto tempo, qui l’artista è perfettamente integrato e stimolato a proseguire nel suo lungo e straordinario per corso espressivo. Luigi Bello è arrivato a Cadegliano-Viconago, a pochi chilometri da Varese sul confine tra Italia e Svizzera, nel 1973. Partito dalla sua amata Legnano per approdare in gioventù a Milano, nella centralissima Brera, con un atelier situato in fondo a via Solferino, nel cuore pulsante del mondo della cultura di quei tempi, a contatto con tutti i più autorevoli protagonisti dell’epoca.

L’uomo, particolarmente sensibile, ha dimostrato di saper ascoltare le esigenze della propria anima, sin da giovane quando lasciò emergere in tutta la sua forza la necessità di disegnare e dipingere. Lo faceva con qualsiasi cosa, forse iniziando già a studiare e sperimentare l’uso di pennelli artigianali fatti di crine di una vecchia spazzola, “per i colori – rivela – usavo delle vecchie lattine trovate tra i rifiuti e mescolavo le terre colorate, come legante usavo l’acqua del riso bollito e disegnavo sulla carta che trovavo nei sacchi di cemento vuoti, è su quella carta che disegnavo con il carbone da legna”. Un’irrefrenabile desiderio di creare, di comunicare e di esprimere un fuoco che ardeva di vitalità, dentro sé, alla ricerca di un sogno, vivere d’arte.

Il sogno si è realizzato ed oggi, Luigi Bello, può raccontare una storia vincente costruita attraverso un percorso particolarmente affascinante e declinato nel nome della massima libertà espressiva, della ricerca e della costante sperimentazione. Forse ha ragione quando afferma che non bisogna giudicare un’opera d’arte attraverso la storia, il curriculum, ma è anche vero che il racconto della sua storia espressiva è costellato da momenti che non si possono tralasciare, e anzi, dovrebbero essere maggiormente conosciuti con un eco internazionale.

La sperimentazione, della quale ho accennato, ha una doppia lettura, quella relativa all’uso di materiali e quella riferita al linguaggio creativo. L’artista si è affidato per lungo tempo alla manipolazione delle terre che lui stesso cerca e con le quali ha realizzato opere molto interessanti.

“lo penso che la nostra vita – prosegue Luigi – appartiene alla natura e alla terra, per questo bisogna amarla. Amare la Terra, significa prima di tutto rispettarla. Alcune volte ci dimentichiamo che tutto proviene dal basso, dalla terra, ecco perché ho cercato di sublimarla in una forma d’arte, per renderle giustizia come merita”.

“Devo continuare a trovare qualcosa di nuovo, raramente sono pienamente soddisfatto del mio lavoro – dichiara – per questo motivo devo continuare a ricercare e ad andare avanti, cercando l’essenza dell’arte attraverso una sintesi estrema”.

Anche se Luigi è un uomo mite dotato di un’innata umanità e simpatia, la sua è un’anima inquieta, sempre alla ricerca di un linguaggio che lo costringe ad essere anche un grande osservatore che vuol adeguarsi sempre con la realtà quotidiana anche nell’uso, ad esempio, di nuovi supporti.

“Mi dispiace – ha poi proseguito Luigi – per chi mi segue se continuo a prendere nuove strade ma devo seguire il percorso della mia strada, indicata da quello che quotidianamente sento dentro di me”.

Alberto Lavit, lungimirante gallerista di Varese, è la persona che più di tutti ha creduto nel valore delle opere di Luigi Bello, apprezzando tutti i “periodi” che hanno costruito passo passo il grande artista che oggi possiamo osservare alla soglia dei novant’anni, portati benissimo.

La storia di Luigi Bello, tutta caratterizzata da un sottile ma particolarmente colto e raffinato fil rouge, prende corpo con l’approccio figurativo che dimostra sin dal principio una mano straordinariamente abile nel presentare una Legnano insolita in cui le terre creano una partitura cromatica di grande effetto e fanno da contraltare alle meravigliose riflessioni dedicate alla musica.

“Verso la metà degli anni ‘60 sentii la necessità di tradurre in musica la mia pittura”.

È un passaggio molto delicato questo, in cui lui stesso decide e dichiara di voler passare dalla figurazione ad un’espressione aniconica che è il frutto di un voler sentire una nuova immagine interiore. In queste opere si delinea una maturazione espressiva di alto livello in cui le scelte cromatiche e il ritmo compositivo delineano nuove vibrazioni e pulsioni vitali. I paesaggi musicali ed il periodo geometrico appartengono alle sperimentazioni informali, dove il gesto diventa scrittura, dove l’emozione danza tra colori e forme nuove delineando anche opere in cui l’artista riesce a trasformare in capolavoro anche la sua stessa firma.

Intuizioni che consentono a Luigi Bello di proseguire un cammino d’arte guidato dal sogno che pian piano si rivela a chi ha il cuore nobile e l’anima aperta all’ascolto. La rivelazione è il “segno”, il “gesto”, che ora appare sempre più deciso, energico, vero e sempre più presente, ed il motivo per cui è importante conoscere la storia espressiva dell’artista risiede proprio nello scoprire, con lo stupore della bellezza, che quel gesto, che ora è palese, è in realtà il fil rouge al quale accennavo poco fa, sempre presente, sin dal periodo figurativo. Non si può non amare il lavoro di Luigi Bello, come non si può non notare la ricerca che ora è sempre più chiara verso una sintesi primitiva, quell’espressione che l’artista ha sempre ammirato. “Sento una necessità di tornare ai primordi della pittura, al primo gesto tracciato dall’uomo primitivo” una sorta di ricerca della sua verità.

E’ in questo contesto, nel momento in cui ricerca nuove intime risposte, che l’artista trova in una nuova residenza, la pace e l’armonia necessaria ad elaborare nuove dinamiche creative.

Chi ama la verità può cercarla incessantemente mentre chi è sicuro di possederla non sente più il bisogno di cercarla e dunque si ferma nell’atto della creazione di idee. La verità è una fonte che scorre sempre, come ci ricordava nell’Areopagitica, John Milton, ed è proprio da questo assunto che capisco nel profondo l’opera di Luigi Bello, e comprendo ora perché la sua ricerca non si fermerà mai. L’artista affida al gesto, all’inconscio e all’arte la traduzione visiva della sua anima, mettendo in stretta relazione il mondo terreno con un approccio puramente spirituale per un’esperienza che non mira al solo piacere estetico ma ad un sentire interiore particolarmente profondo e sincero. E’ così che le ultime opere realizzate in questo periodo mostrano una sempre più estrema sintesi formale, nel gesto e nelle scelte cromatiche.

“La mia manualità oggi segue l’istinto, ricerco una pittura intrisa di purezza, il mio gesto è libero e sicuro, senza alcuna sorta di timidezza, ho sempre seguito la mia accesa curiosità e innata fame 6 di conoscenza.”

La semplificazione esasperata del segno, talvolta in contesti monocromatici, mostrano una sorta di ricerca visionaria dell’essenza, quella che caratterizzò l’esperienza filosofica suprematista. Il “segno”, di Luigi Bello, riesce ad andare oltre le esperienze del passato, elaborando un codice del linguaggio espressivo modellato sulla sua sensibilità. Gli spazi che appaiono, così, sulla tela possono essere considerate aree entro le quali potersi confrontare con il proprio io più profondo. E’ “il pittore – che – deve creare costantemente un solo unico capolavoro, se stesso”, affermava Yves Klein.

Per Luigi Bello, la società ha sempre più bisogno di spiritualità, nella sua nuova pittura gestuale son presenti simbolicamente il colore bianco a rappresentare l’universo, il nero per l’umanità e il colore rosso che descrive cromaticamente la nostra epoca martoriata, tre colori che dialogano sulla tela alimentando quel vitale ritmo compositivo-cromatico che caratterizza lo stile dell’artista. Il colore rosso, spesso presente nelle opere in maniera quasi impercettibile, riesce a dare armonia ed equilibrio a tutta l’opera come un “cincischio” come ama chiamarlo l’artista indicando un gesto piccolo ma determinante del dipinto.

Le opere di Luigi Bello riescono a far vibrare le corde del cuore a chi è disponibile a lasciarsi in fiammare dall’arte.

Alla vigilia dei suoi novant’anni all’apertura di ben tre mostre in contemporanea, che celebrano la grandezza dell’artista, nessuno osi pensare che questo sia un punto d’arrivo per Luigi Bello, perché ne sentiremo parlare sempre più come protagonista di alcune belle pagine della storia dell’arte contemporanea.

Alberto Moioli

Presentazione e testo critico di Elisabetta Ghiringhelli per la mostra “Nel Gesto”, Gennaio 2014

“Inconsciamente obbedisco ad un impulso fisico, senza rendermi conto al momento di ciò che faccio. La superficie su cui lavoro è come un campo di battaglia dove si moltiplicano le ferite che portano la testimonianza della mia inquietudine. Tra me e il manufatto esiste una forza che alla fine dev’essere vinta.”

Ottantacinque anni di dedizione, sacrifici, ripensamenti ma soprattutto passione, hanno fatto sì che Luigi Bello oggi possa pronunciare queste parole con maturata convinzione. La sua opera infatti, vera e propria autobiografia dipinta, è andata strutturandosi nel tempo attorno a due basilari concetti: Essenzialità e Verità; come del resto la stessa sua vita, raro esempio di coerenza con il proprio credo, i propri valori, la propria arte in perpetuo conflitto con la trivialità quotidiana.

Originario di Legnano, classe 1928 e figlio d’arte: il padre, pittore e decoratore, fu – assieme alla madre – tra i pochissimi che compresero questa sua sensibilità e che ne sostennero il talento, impartendogli i primi insegnamenti su disegno e volume. Nonostante le mille avversità della vita, Luigi sentiva in fondo che la passione per l’Arte era talmente radicata nel suo essere e nel suo sentire da permettergli di far fronte alla scarsità di mezzi e alla diffidenza delle persone che lo circondavano. Questa forte volontà fu la stessa che lo sostenne nel dopoguerra durante gli anni di frequentazione dei corsi serali presso la Scuola d’Arte del Castello Sforzesco, dove accrebbe e rese sempre più solide le proprie conoscenze. Il disegno, da lui definito una gradevole ossessione, venne coltivato sin dalla fanciullezza apprendendo empiricamente i rudimenti della pittura tramite l’attenta osservazione delle stampe dei grandi artisti e delle riproduzioni paterne. La produzione figurativa dei primi anni porta infatti traccia di una mano formidabilmente agile, in special modo nella rappresentazione della figura umana. La stessa sicurezza di tratto oggi si riscontra nei graffi, nelle ferite, negli scavi, nelle esili e tormentate pennellate che l’artista ci presenta come ostensioni di se stesso su pareti candide e porose.

Il culmine creativo gli giunge istintivamente, dal Nulla, quasi d’improvviso, come una rivelazione dopo attimi di intenso isolamento mentale, spesso persino con l’ausilio della musica: “È assolutamente necessario credere in qualcosa che scaturisca dal nulla; raggiungere questo traguardo è assolutamente fondamentale, significa raggiungere la chiarezza: non v’è dubbio, questa è quella parte meravigliosa dell’attività di ogni creatore. Se questa chiarezza viene prima di tutto, allora il pensiero ed il vedere sono pronti a diventare Arte”.

Nonostante si definisca umilmente un autodidatta, non poté scegliere insegnante migliore: la Natura. “Perché mi sono affidato alla Natura? Perché ritrovo nella sua Maestà una ricchezza infinita di forme, di colori di materie. Comprendere la natura non è solo un’arte, ma anche una scienza. Noi tutti dovremmo imparare a guardare: guardare non significa soltanto vedere con gli occhi, ma capire di essere in armonia con il creato, trascendere cioè quella che è la realtà corporale”. La sua fertile curiosità gli permise di assimilare precocemente la lezione dei grandi del passato: di indole schiva e riservata, il disegno lo affascinava, lo appagava. Fu una parentesi di 8 gioia tra le sofferenze e le privazioni che il secondo conflitto mondiale portò a lui e alla sua famiglia: “Sin da bambino, il mio intelletto fu contagiato da un virus (quello dell’amore per l’Arte, n.d.r.). Quel periodo non fu per nulla allegro, ma piuttosto sofferto; non per il virus che senza accorgermene si impossessò della mia mente, ma perché eravamo in tempo di guerra. Fu un periodo tragico, in cui conobbi l’angoscia dei bombardamenti, la fame l’incertezza della vita. Così nel mio cuore si radicò la tristezza”. Gli anni che precedettero questo trauma, quelli dell’adolescenza, furono tuttavia propedeutici per quelli a venire, quelli del dopoguerra; in questo periodo iniziò a sentire la necessità di dedicarsi a qualcosa di alto, in cui trovò lo scopo della sua giovane esistenza: l’amore per il disegno, per la figura umana. Caparbiamente, cercava di catturare i moti dell’animo, ma la continua insoddisfazione nei confronti di tale ricerca lo portò pian piano alla scoperta di un linguaggio più avanzato, intimo, viscerale. Ogni artista elabora il proprio linguaggio in funzione di ciò che vuole esprimere e, dopo aver chiarito a sé stesso i concetti fondamentali espressi nelle tappe della propria storia espressiva e personale, giunse negli anni della maturità ad una svolta cruciale: la non figurazione – astratta e informale – prese il sopravvento sulla figurazione, e con lei anche quel bagaglio di vita interiore che non sarebbe riuscito ad esprimere altrimenti.

La presente esposizione vuole focalizzare l’attenzione soprattutto su questo tipo di ricerca, quella della non-forma, quella di una nuova volumetria tutta mentale, della stesura materica del pigmento, costellata da grafismi eleganti e armonici; non si vuol tuttavia rinnegare il passato figurativo di Luigi Bello e, con un raffinatissimo cammeo di quattro tele, viene illustrato il sottile passaggio da una figurazione estremamente avanguardistica e minimale, in parte memore del razionalismo del Ventennio, ad un completo sfaldamento della figura. In questi quattro esempi ricorre con evidenza il triangolo, proposto come mezzo per sintetizzare la propria firma – auto affermazione di sé stesso come artista – o come simbolo del materialismo imperante: se poggia sul vertice, la grandezza dell’avidità che rappresenta sarà direttamente proporzionale alla sua instabilità.

Nelle tele più recenti al contrario, fatta eccezione per alcuni timidi rimandi autobiografici, oltre alla figura, non c’è più spazio né per il titolo né per il simbolo; rimane solo il racconto di una solenne armonia interiore: gli esili “giunchi” che si stagliano su una quinta incandescente terminando in decisi assoli dal delicato sapore giapponista; le nubi ocra, viola e rosse di un utopico tramonto interrotte da lacerti di grafite e sanguigna; lo stillicidio combusto delle gocce che solcano ritmicamente lo sfondo siderale della tela.

Questa stessa armonia viene indagata da Bello anche in una serie di dipinti cosiddetti “musicali”, dove l’artista traspone ritmicamente su tela segno e colore, ribadendo in tal modo lo strettissimo collegamento tra arte e vita come la musica funge da ponte tra interiorità e realtà esterna, così la pittura tramite una calibrata sinfonia è in grado di trasporre il nostro io direttamente verso la quarta dimensione quella dell’animo umano.

Gli anni della maturità furono connotati anche da un altro importante cambiamento, un necessario completamento alla propria Estetica, al suo gesto spontaneo e atavico: l’uso della Materia. Imprescindibile, anche in questo caso, il rapporto con la Natura. La purezza primordiale dei suoi elementi ha permesso all’artista di avvicinarsi alla pittura arcaica e primitiva, quando l’essenzialità di forma e colore dava vita ad autentici intarsi su pietra. Durante il proprio percorso pittorico, scoprì infatti quella mescolanza chiamata tempera grassa, un legante per terre 9 presente in diverse località; la gradazione cromatica veniva modificata con il calore. Il modo di scaldare le terre, gli permise di scoprire la bellezza dei colori offerti dalla materia, dando all’occhio un piacere in simbiosi con l’Universo e togliendo dal cervello quell’ “obbligo” imposto dai prodotti della raffinata maestà delle gamme povere che troviamo in queste sue ultime importanti creazioni industriali. Lo splendore artificioso dei colori chimici adultera infatti il vero senso del colorire: lo spettatore è portato ad assimilare valori illusori, instabili, effimeri al contrario della raffinata maestà delle gamme povere che troviamo in queste sue ultime importanti creazioni.

I segni tracciati con essa sono scritture dell’animo. Il loro utilizzo comportò un abbandono definitivo della spazialità volumetrica tradizionale, diversa da quella naturalistica: Bello, artista immaginario, si spinge oltre il gesto, in una dimensione più adeguata a concetti decisamente metatemporali e metafisici. I solchi che traccia sulla tela attraverso e tramite la materia si trasformano in gestualità libera rispetto ai canoni di bellezza di un’opera del passato. Questa deviazione è dettata dal bisogno di esprimere con coerenza la Verità, eliminando il secondario, il sovrabbondante, l’insignificante. Memore degli insegnamenti della dottrina zen, ha riflettuto sull’essenzialità come rinuncia a qualsiasi desiderio superfluo, sulla bidimensionalità in contrasto alla pomposa volumetria occidentale e sulle tinte ruvide e calcinose in antitesi alla laccata irrealtà di quelle immagini a cui il nostro occhio si è ormai assuefatto a causa della perpetua fagocitazione pubblicitaria.

Bello ci propone un diverso modo di osservare, in cui l’imitazione, la finzione, dev’essere quindi abbandonata definitivamente: gli elementi con cui ogni sua tela viene portata alla vita sono di una semplicità disarmante e per questo paradossalmente al di fuori di qualsiasi circuito spettacolistico che vorrebbe l’artista al servizio del gusto dei più. Ogni sua opera è unica in quanto derivante dall’emozione di quel preciso istante. “Questo nostro sistema Occidentale si è stabilizzato in modo da vivere in base alla funzione scenica, dove tutto è esteriorità e dove non esiste alcuna indipendenza. Per me, libertà significa identità, capacità di essere unici e quindi assolutamente intoccabili. Essere slegati da regole o vincoli è una necessità non solo per l’artista ma per anche per tutti noi. Per questo io combatto contro le mode e il consumismo: non voglio accorciare l’orizzonte dove il mio essere potrebbe germogliare florido e libero”.

Ancora una volta, tramite una propria filosofia creativa Bello afferma l’arte come l’applicazione dello spirito ai sui primordi essa è endemicamente priva di compromessi. Arte per Arte, senza piaggeria, senza la pretesa di piacere al vasto pubblico, ma solo consapevole del proprio compito nella storia, quello di affermare la Verità.

Elisabetta Ghiringhelli